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Decreto dignità: riflessioni e perplessità

Elaborato vincitore del IX Premio Marco Baldassari, anno 2018.

Dott. Cdl Marco Tuscano

«Daremo un colpo mortale al precariato licenziando Jobs act» disse il nuovo ministro del lavoro On. Luigi Di Maio alla conferenza stampa di presentazione del Decreto Dignità, ed è sicuramente singolare che questa nuova riforma del lavoro inizi con un licenziamento.

Ma, al di là delle considerazioni di colore, preme analizzare quali siano gli snodi cruciali del Decreto legge 87/2018, convertito poi con modificazioni nella Legge 96/2018.
E’ possibile individuare quattro macroaree di intervento del Decreto dignità: La lotta al precariato, la lotta alla delocalizzazione, la lotta alla ludopatia e le misure in materia di semplificazione fiscale.
Nel dettaglio, per quanto riguarda la materia prettamente lavoristica, per perseguire i propri fini il Governo ha deciso di intervenire, soprattutto, sui contratti di natura temporanea, ovvero il tempo determinato e la somministrazione di lavoro a termine, con l’obiettivo di disincentivarne l’utilizzo.
Nel primo caso, tra le cose più eclatanti, il Governo ha deciso di fare un passo indietro, se non qualitativo (poiché questo solo il tempo lo dirà), sicuramente temporale, con il ritorno, in parte, alla necessità di causali.

Nel secondo caso si è deciso di applicare alla somministrazione il capo III del D.lgs 81/2015, ovvero le norme in materia di contratto a tempo determinato; e non senza attimi di “smarrimento” iniziali da parte degli addetti ai lavori, dovuti alla forma forse un po’ troppo semplicistica, secondo alcuni, con cui il D. L. 87/2018 era intervenuto.
Al fine di comprendere la portata e l’importanza di questa riforma è opportuno analizzare, nello specifico, le nuove disposizioni normative entrate definitivamente, e totalmente, in vigore, dopo il cosiddetto periodo transitorio, dal 1° Novembre 2018.

Per quanto riguarda il tempo determinato, in primis, il contratto acausale (ossia senza la necessità di una motivazione) può essere ora stipulato per una durata massima non superiore ai 12 mesi, e qualora la durata ecceda i 12 mesi è necessaria l’apposizione, da parte del datore di lavoro, di una causale (che possa essere dimostrata in caso di contenzioso) prevista dall’articolo 19 comma 1 del D.lgs 81/2015, come da ultimo modificato, ovvero di una causale correlata a esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, esigenze di sostituzione di altri lavoratori o esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

La non apposizione delle causali comporta la trasformazione del contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento dei 12 mesi.
In secundis, la durata massima di un rapporto di lavoro a tempo determinato, per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, è stata portata da 36 mesi a 24 mesi, salvo differenti disposizioni previste dai contratti collettivi (nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) e salvo l’eventuale stipula del contratto di fronte alla ITL, che consente di innalzare i limiti di durata di 12 mesi.

Nuove previsioni poi sono previste per rinnovo e proroga (escluso il lavoro stagionale): per il primo, che ricordiamo essere un contratto, tra le medesime parti, successivo a un precedente rapporto a termine, è sempre previsto il richiamo alle ragioni giustificatrici, cosiddette causali (oltre al rispetto degli intervalli previsti, detti anche stop & go), in mancanza delle quali il rapporto di lavoro si trasforma a tempo indeterminato.

Per la seconda invece, che ricordiamo essere la posticipazione del termine del contratto inizialmente previsto mediante accordo scritto tra le parti, non è prevista alcuna causale, se non nei casi in cui la durata totale del rapporto di lavoro (iniziale più proroga) superi i 12 mesi, pena la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato dal dodicesimo mese.
Il numero di proroghe possibile, inoltre, indipendentemente dal numero dei rinnovi, viene abbassato da 5 a 4 (in caso di quinta proroga il rapporto è trasformato a tempo indeterminato).
Le ultime, ma non meno importanti, novità, per quanto riguarda il tempo determinato, sono un contributo addizionale di 0,5 punti percentuali, per ogni rinnovo, che va a sommarsi a quello già previsto dell’ 1,4% e, infine, lo slittamento in avanti del termine di impugnazione, a pena di decadenza, da 120 a 180 giorni.

Chiarito il quadro sul tempo determinato, preme specificare cosa sia stato novellato sulla somministrazione.
La disciplina di quest’ultima, come già stato detto, è stata in parte ricondotta al tempo determinato, dapprima tramite il breve, diretto e altrettanto ambiguo, art. 2 del D.l. 87/2018: «In caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 23 e 24.», successivamente tramite le modifiche apportate dalla legge di conversione n. 96/2018, che hanno reso la norma sicuramente più complessa, ma, necessariamente, più completa e chiara.
In particolare, le novità introdotte stabiliscono che, anche per il rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore somministrato, si applichino le disposizioni del nuovo art. 19 del D.lgs 81/2015 che prevedono, oltre al nuovo limite massimo di 24 mesi, la possibilità di stipulare un contratto a tempo determinato acausale per un periodo non superiore a 12 mesi, e che prevedono inoltre che il superamento del suddetto limite possa avvenire solo in presenza delle causali ex art. 19 comma 1 del D. Lgs 81/2015 (con la specifica che, in caso di somministrazione, queste causali si applichino solo all’utilizzatore).

Per quanto riguarda il rispetto del limite dei 24 mesi, la circ. 17 del 31/10/2018 del Ministero del lavoro chiarisce inoltre che si conteggiano non solo i periodi in cui il lavoratore ha avuto rapporti di lavoro a termine con il somministratore ma anche quelli in cui ha avuto rapporti di lavoro a termine con l’utilizzatore, se con mansioni dello stesso livello o categoria legale e inclusi i periodi antecedenti alla data di entrata in vigore della riforma.

Viene poi individuato un nuovo limite quantitativo a cui agenzie di somministrazione e aziende utilizzatrici devono porre attenzione: fatte salve le diverse previsioni da parte della contrattazione collettiva (anche di II livello) dell’utilizzatore, quest’ultimo può assumere a tempo determinato o contratto di somministrazione a tempo determinato, esclusi i casi particolari, un numero di lavoratori non superiore al 30% dei lavoratori a tempo indeterminato in forza, presso lo stesso, al 1° gennaio dell’anno di stipulazione dei predetti contratti (con arrotondamento del decimale all’unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5); fermo restando le esclusioni, ai fini del conteggio, di lavoratori in mobilità, svantaggiati e molto svantaggiati, o che percepiscono da almeno 6 mesi trattamenti di disoccupazione non agricola, e fermo restando il limite legale del 20% previsto per i contratti a termine diretti.

E’ importante precisare, però, che la nuova legge non applica alla somministrazione alcune delle norme del tempo determinato, e nello specifico gli art. 21 comma 2, e gli art. 23 e 24 del D.lgs 81/2015 ossia il rispetto dello Stop & go, i limiti quantitativi (pur esistendo il nuovo limite di contingentamento prima enunciato) e i diritti di precedenza.

Per concludere, tramite legge di conversione, si è reintrodotta la fattispecie penale della somministrazione fraudolenta, che si realizza nei casi in cui la somministrazione di lavoro sia posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore, e che prevede un’ammenda in capo a somministratore e utilizzatore.
Come è facile capire, la portata dell’intervento è notevole, e del tutto in controtendenza rispetto alle riforme immediatamente precedenti, come peraltro dichiarato essere nella volontà del Ministro del Lavoro.

A parere di chi scrive, l’intervento normativo desta però alcune perplessità: alcune di tipo tecnico/pratico, altre di tipo etico/funzionale.
Innanzitutto è d’obbligo sottolineare come l’attuale Governo abbia espressamente dichiarato di voler “sburocratizzare” la normativa per permettere alle aziende di vivere e di creare valore.
Ma nelle novità introdotte non sembra realizzarsi questo intento.

Da una parte perché il ritorno alle causali, va a risvegliare le vecchie criticità in cui si è insinuata grandissima parte del contenzioso degli anni passati.
Dall’altra parte perché l’introduzione d’urgenza del d.l. 87/18, e quanto previsto dal decreto stesso, hanno fatto in modo che, al momento della conversione in legge, si venissero a creare dei regimi transitori che di certo non semplificano la vita né alle aziende, né agli operatori, tantomeno ai lavoratori coinvolti.

In particolare, in base alla data di stipula del contratto a tempo determinato, si può incorrere in ben 4 regimi differenti, che interessano, è il caso di dirlo, solo l’ art. 1, comma 1, del Decreto (limite di durata massima dei rapporti a termine, anche a scopo di somministrazione e disciplina delle proroghe e dei rinnovi), ma che prestano il fianco a dubbi, interpretazioni, ad un eventuale contenzioso, ma anche, e non meno importante, a trattamenti diversi in capo ai lavoratori (con il rischio forse di intaccare i principi di non discriminazione e di uguaglianza sanciti dalla Costituzione): il primo per contratti stipulati entro il 13/07/2018 che fanno riferimento al vecchio D. Lgs 81/2015.

Il secondo per contratti stipulati dal 14/07/2018 e fino alla pubblicazione in gazzetta della legge di conversione (11/08/2018), che fa riferimento alla regola transitoria del d.l. 87/2018 prima della sua conversione.

Il terzo per contratti stipulati dal 12/08/2018 al 31/10/2018, poiché l’art.1, comma 2, del decreto legge 87/2018 come convertito dalla legge n. 96/2018 prevede che «le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018».

Ed infine, dall’01/11/2018, lo stabile regime finale, già descritto.
E se anche l’intervento, nella pratica, e con la pratica, si rivelerà più semplice di quel che appare, non sembra comunque realizzare l’obiettivo di scoraggiare l’utilizzo dei contratti a termine da parte delle aziende, al fine di farle convergere sul tempo indeterminato.

Piuttosto, sempre a parere di chi scrive, l’inasprimento delle regole su tempo determinato e somministrazione a termine potrebbe rivelarsi un vero e proprio boomerang.
La nuova normativa pare infatti penalizzare proprio quei lavoratori senza notevoli competenze, quindi già precari per natura, più facilmente soggetti ad assunzioni a tempo determinato (o somministrazione a tempo determinato).

E’ infatti presumibile che le aziende preferiscano investire in modo prioritario, tramite assunzioni a tempo indeterminato, su figure già skillate e con alte competenze, non così facilmente “intercambiabili”, e sicuramente molto appetibili, sul mercato del lavoro.
In poche parole figure non precarie.

La possibilità quindi è che ci si ritrovi, paradossalmente, di fronte all’ipotesi di datori di lavoro che, nell’ambito di mansioni che non richiedono alta specializzazione, rispetto all’opzione di apporre una rischiosa causale per la proroga oltre i 12 mesi, o per il rinnovo del rapporto, preferiranno virare sull’assunzione a termine di un nuovo lavoratore, che, come il suo predecessore, non avrà sufficiente tempo di dimostrare le proprie qualità e/o di apprendere nuove competenze.

Da ultimo, alcune perplessità riguardano l’identificare la precarietà nel contratto a tempo determinato.
La lotta al tempo determinato è davvero la lotta al precariato? In alcuni paesi esteri pare non essere così.
Si è davvero sicuri quindi che il passo in avanti sia la lotta al contratto a termine?
E se invece la chiave di volta fosse una formazione, per il lavoratore che si affaccia al mondo del lavoro, ancor più accessibile ed economica?

Questo potrebbe invogliare i datori di lavoro ad investire sui lavoratori, con dirette conseguenze sull’occupazione.
Ai posteri l’ardua sentenza.


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